lunedì 24 dicembre 2018

Il buio di una madre

Avevo un'intera famiglia calabrese, attorno a me: avevo partorito da quattordici ore, il bambino stava benissimo ed ero circondata da grandi madri che non desideravano altro che prodigarsi, con tutti i mezzi pratici e magici a loro disposizione. Oltre al personale della clinica, al chirurgo del cesareo famoso perché con la sua "tecnica dolce" metteva al massimo tre punti (io ne ebbi cinque, e lui venne a scusarsi), al direttore che era stato compagno d'università di mia mamma ed era passato più volte a controllare che tutto andasse bene. Tutto infatti andava bene tranne una cosa: io.
L'attesa, che era stata tutto sommato gioiosa e senza ombre, s'era sciolta in una sensazione di inadeguatezza, di paura, di scacco. Di persecuzione – dopo anni, ho ancora disagio a scrivere questa parola, che allora non osavo nemmeno formulare dentro di me, perché metteva in discussione, in un colpo solo, qualunque ruolo, qualunque affetto, qualunque "normalità".
Sì, avevo giurato che non sarei stata come le grandi madri meravigliose ma spaventose. Avevo giurato che sarei stata una mamma illuminista, forse pure svedese, senza timori sciocchi, senza obblighi di golfino, senza misurazioni forsennate dei parametri, senza paure fasulle. Avevo giurato che tutta quella spinta vitale che avevo sentito incontrovertibilmente dentro di me per quegli otto mesi e mezzo sarebbe bastata per anni, per tutti e due, anzi tre: il papà non doveva restare fuori dall'equazione amorosa, dalla stagione dell'attaccamento.
E invece.
Invece sentivo il pianto del bambino come un'accusa, il mio poco latte, l'improvvisa avarizia del mio corpo come una condanna, i postumi del cesareo come un'ingiustizia, il drammatico calo del ferro, per cui anche camminare mi dava le vertigini, come una punizione di qualcuno che conosceva bene il mio cuore colmo di spavento e non di gioia. Non dormivo abbastanza, non mangiavo abbastanza, e tutto il mondo di cure e attenzioni che pure mi circondava mi faceva l'effetto opposto.

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