domenica 27 gennaio 2019

Shemà

Fonte immagine

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.


Primo Levi, breve testo in versi liberi che apre il romanzo “Se questo è un uomo”. La poesia si intitola “Shemà”, che significa “ascolta”


Forse, quanto è avvenuto” non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: “comprendere” un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta e insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (e anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili.(…) Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.

Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo

Primo Levi


Fonte testi

sabato 26 gennaio 2019

Non sei mica fascista?



“ - Non sei mica fascista? - mi disse. / Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. - Lo siamo tutti, cara Cate, - dissi piano. - Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s'accontenta, è già un fascista”. 

Cesare Pavese, "La casa in collina


Leggi on line


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giovedì 24 gennaio 2019

Infanzia

Fonte immagine: L’arte di sopravvivere
Il tuo latte era già avvelenato
da un presagio minaccioso
le tue braccia stanche
non mi offrivano protezione
i tuoi occhi erano consumati dal pianto
il tuo cuore batteva per paura
la tua bocca s’apriva solo per pregare
o maledire me l’ultima nata che chiedeva rifugio
dalle sagome umane che colpivano nel buio
dai cani aizzati contro dai padroni taciturni e grevi
dallo sputo di bambini nutriti d’ignoranza
dagli idioti lasciati liberi
dalle vergogne e dalle catene familiari
per sfogarsi con gli ebrei
all’uscita della sinagoga.
Ton lait était déjà empoisonné
d’un présage plein de menaces
tes bras fatigués
ne m’offraient pas de protection
tes yeux étaient brûlés de larmes
ton cœur battait de peur
ta bouche ne s’ouvrait que pour prier
ou me maudire moi la dernière née qui cherchait un refuge
contre les silhouettes humaines qui frappaient dans le noir
les chiens excités par des patrons silencieux et lourds
les crachats des enfants nourris d’ignorance
les idiots libérés
des entraves et des chaînes familiales
pour s’en prendre aux juifs
à la sortie de la synagogue.

Edith Bruck



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domenica 20 gennaio 2019

Casa

Nessuno lascia la propria casa
a meno che casa sua non siano le mandibole di uno squalo
verso il confine ci corri solo
quando vedi tutta la città correre
i tuoi vicini che corrono più veloci di te
il fiato insanguinato nelle loro gole
il tuo ex-compagno di classe
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo
lasci casa tua quando è proprio lei a non permetterti più di starci.
Nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo
fuoco sotto ai piedi
sangue che ti bolle nella pancia
Non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti
il collo
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale
sotto il respiro
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando ad ogni boccone di carta
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.
Dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra
Nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni
sotto i vagoni
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.
Nessuno striscia sotto ai recinti
nessuno vuole essere picchiato
commiserato
Nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori
o il carcere,
perché il carcere è più sicuro
di una città che arde
e un secondino
nella notte
è meglio di un carico
di uomini che assomigliano a tuo padre
Nessuno ce la può fare
nessuno lo può sopportare
nessuna pelle può resistere a tanto
Il
Andatevene a casa neri
rifugiati
sporchi immigrati
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese
negri con le mani aperte
hanno un odore strano
selvaggio
hanno distrutto il loro paese e ora vogliono
distruggere il nostro
Le parole
gli sguardi storti
come fai a scrollarteli di dosso?
Forse perché il colpo è meno duro
che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra
le cosce
o gli insulti sono più facili
da mandare giù
che le macerie
che le ossa
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.
A casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda
A meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo
lasciati i panni dietro
striscia nel deserto
sguazza negli oceani
annega
salvati
fatti fame
chiedi l’elemosina
dimentica la tua dignità
la tua sopravvivenza è più importante
Nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia
Che ti mormora nell’orecchio
Vattene,
scappatene da me adesso
non so cosa io sia diventata
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.

WARSAN SHIRE


In lingua originale:
 
 
HOME
 
Warsan Shire
 
no one leaves home unless
home is the mouth of a shark
you only run for the border
when you see the whole city running as well
your neighbours running faster than you
breath bloody in their throats
the boy you went to school with
who kissed you dizzy behind the old tin factory
is holding a gun bigger than his body
you only leave home
when home won't let you stay.
no one leaves home unless home chases you
fire under feet
hot blood in your belly
it's not something you ever thought of doing
until the blade burnt threats into
your neck
and even then you carried the anthem under
your breath
only tearing up your passport in an airport toilets
sobbing as each mouthful of paper
made it clear that you wouldn't be going back.
you have to understand,
that no one puts their children in a boat
unless the water is safer than the land
no one burns their palms
under trains
beneath carriages
no one spends days and nights in the stomach of a truck
feeding on newspaper unless the miles travelled
means something more than journey.
no one crawls under fences
no one wants to be beaten
pitied
no one chooses refugee camps
or strip searches where your
body is left aching
or prison,
because prison is safer
than a city of fire
and one prison guard
in the night
is better than a truckload
of men who look like your father
no one could take it
no one could stomach it
no one skin would be tough enough
the
go home blacks
refugees
dirty immigrants
asylum seekers
sucking our country dry
niggers with their hands out
they smell strange
savage
messed up their country and now they want
to mess ours up
how do the words
the dirty looks
roll off your backs
maybe because the blow is softer
than a limb torn off
or the words are more tender
than fourteen men between
your legs
or the insults are easier
to swallow
than rubble
than bone
than your child body
in pieces.
i want to go home,
but home is the mouth of a shark
home is the barrel of the gun
and no one would leave home
unless home chased you to the shore
unless home told you
to quicken your legs
leave your clothes behind
crawl through the desert
wade through the oceans
drown
save
be hunger
beg
forget pride
your survival is more important

no one leaves home until home is a sweaty voice in your ear
saying-
leave,
run away from me now
i dont know what i've become
but i know that anywhere
is safer than here.
 

giovedì 17 gennaio 2019

LE PAROLE SONO PALLOTTOLE

Andrea Camilleri, recentemente, ha lanciato l’allarme contro l’odio che dilaga e che rischiamo di trasmettere ai ragazzi. Queste le sue parole:

“Stiamo perdendo la misura, il peso, il valore della parola. Le parole sono pietre, possono essere pallottole. Bisogna saper pesare il peso delle parole e soprattutto far cessare il vento dell’odio che è veramente atroce. Lo si sente palpabile attorno a noi. Ma perché l’altro è diverso da me? L’altro non è altro che me allo specchio. È di oggi la notizia di quel pazzo che entra in una sinagoga e uccide 11 persone urlando: “Gli ebrei tutti a morte!”. Ma ci si rende conto a che livelli ci abbassiamo quando non solo lo diciamo, ma siamo capaci di pensare questo. Peggio degli animali che hanno la fortuna di non parlare. Le parole della senatrice Liliana Segre dovrebbero essere dette e scritte all’ingresso di ogni scuola perché il terribile è che stiamo educando una gioventù all’odio. Il motivo? Perché abbiamo perso il senso dei valori. I veri valori della vita li abbiamo persi”.

La lotta all’odio non è cosa semplice: il web, in questo senso, è una polveriera impossibile da controllare e censire. L’unico rimedio, ancora una volta, è l’educazione: dobbiamo trasmettere l’idea che odio e violenza non sono strumenti, dobbiamo aiutare i ragazzi a distinguere la determinazione dall’aggressione. Abbiamo bisogno di un programma massiccio di educazione emotiva, a cui va aggiunto l’impegno civico di ciascuno di noi. Questa pericolosa cultura si può combattere solo contrapponendole un’altra cultura, quella della ragione e della gentilezza.

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sabato 12 gennaio 2019

IL SABATO DELLE STRAGI

Suonerie di cellulari,
tutti pronti per partire
autoradio digitali,
grande meta; "il divertire"

C'è bisogno di evasione
anche in tanta Confusione,
luci box a gran volume
la routine ormai è "barlume"

E nel "vuoto" che è interiore,
tanto per bruciar le ore,
col pretesto ormai del ballo
si Partecipa al gran sballo.

Gira l'alcool, le pasticche,
l'euforia fa tutte amiche,
e nel pieno del "casino",
non sai più a chi sei vicino.

Poi nel cuore della notte,
in vetture già "truccate",
di sgommate hai pien l'udito,
come a Imola, in circuito.

Tutto è pronto per la sorte
con destinazion la morte,
ed il "branco" più non regge...
resteran solo le schegge.

Verso l'alba silenziosa,
un lampeggio di "volante",
e un telefono di casa
che preannuncia un incidente.

E così la vita "cambia"
in famiglie devastate
usciranno poi i giornali,
con le stragi già annunciate.


"Caro Faber", la lettera che Don Gallo dedicò a Fabrizio De André a pochi giorni dalla sua morte

La loro Genova ha unito i loro destini, le loro storie si sono incrociate per sempre nell'attenzione verso gli ultimi e gli emarginati. Don Gallo, il prete di strada che si è fatto conoscere durante tutta la sua vita per l'impegno verso le condizioni umane dei disagiati e degli ultimi, dei dimenticati e Fabrizio De André, hanno condiviso tra le vie di Genova il racconto del mondo.
Lo hanno raccontato e testimoniato allo stesso modo. L'uno attraverso il Vangelo, l'altro attraverso la musica. Ai tempi dei liceo, Faber era l'alunno del cugino di Don Gallo, Giacomino Piana, che insegnava religione. Don Gallo invece si era insediato come viceparroco nella chiesa della Madonna del Carmine, a una cinquantina di metri dalla famosa Via del Campo, divenuta poi celebre negli accordi di De André.
Nel diciassettesimo anniversario della morte di Faber, questa lettera scritta da Don Gallo racconta, parola dopo parola, l'essenza dell'amico e cantautore italiano, ricordandone la profonda vicinanza verso l'umanità intera e gli insegnamenti scaturiti dalla sua "antologia dell'amore":
Caro Faber. Per Fabrizio De André
di don Andrea GalloGenova, 14 gennaio 1999
Caro Faber,
da tanti anni canto con te, per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti. Canto con te e con tanti ragazzi in Comunità.
Quanti «Geordie» o «Michè», «Marinella» o «Bocca di Rosa» vivono accanto a me, nella mia città di mare che è anche la tua. Anch'io ogni giorno, come prete, «verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e fame». Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo, non solo tra le mura del Tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell'esclusione.
E ho scoperto con te, camminando in via del Campo, che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l'intelligenza.
Abbiamo riscoperto tutta la tua «antologia dell'amore», una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l'aspirazione alla libertà.
E soprattutto, il tuo ricordo, le tue canzoni, ci stimolano ad andare avanti.
Caro Faber, tu non ci sei più ma restano gli emarginati, i pregiudizi, i diversi, restano l'ignoranza, l'arroganza, il potere, l'indifferenza.
La Comunità di san Benedetto ha aperto una porta in città. Nel 1971, mentre ascoltavamo il tuo album, Tutti morimmo a stento, in Comunità bussavano tanti personaggi derelitti e abbandonati: impiccati, migranti, tossicomani, suicidi, adolescenti traviate, bimbi impazziti per l'esplosione atomica.
Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente (che era ed è la nostra vita quotidiana) abbiamo intravisto una tenue parola di speranza, perché, come dicevi nella canzone, alla solitudine può seguire l'amore, come a ogni inverno segue la primavera [«Ma tu che vai, ma tu rimani / anche la neve morirà domani / l'amore ancora ci passerà vicino / nella stagione del biancospino», da L'amore, ndr].
È vero, Faber, di loro, degli esclusi, dei loro «occhi troppo belli», la mia Comunità si sente parte. Loro sanno essere i nostri occhi belli.
Caro Faber, grazie!
Ti abbiamo lasciato cantando Storia di un impiegato, Canzone di Maggio. Ci sembrano troppo attuali. Ti sentiamo oggi così vicino, così stretto a noi. Grazie.
E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
Caro Faber, parli all'uomo, amando l'uomo. Stringi la mano al cuore e svegli il dubbio che Dio esista.
Grazie.
Le ragazze e i ragazzi con don Andrea Gallo,
prete da marciapiede.

mercoledì 2 gennaio 2019

Abbiamo fame di tenerezza...

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Ma se la terra è piatta, come fanno a esistere il giorno e la notte. Messo alle strette la scottante confessione del gigante Atlante: “Sono io che spengo il sole.”

Ci hanno ingannato persino sulla mitologia, così parrebbe che il gigante Atlante non sostenga la Terra, bensì il Sole. È stato lui stesso a confessarlo, dopo la messa in onda della trasmissione “Le Iene” e al suo servizio sui Terrapiattisti. Durante questo, infatti sarebbe infatti trapelata la verità sulla costruzione delle chiese e, in particolare, sulla grandezza delle porte, ciclopiche, che ne costituiscono gli ingressi. Esse infatti sarebbero necessarie affinché vi possano entrare i veri utenti per le quali sono state costruite, ovvero i giganti. Infatti, le chiese, delle quali molti di noi calchiamo ogni giorno il suolo, sarebbero in realtà dei templi costruiti dai giganti per i giganti.
C’è poco da dire, la teoria della Terra piatta funziona ed è ben salda delle basi scientifiche già ben avanzate oltre 2500 anni fa, infangate in seguito dai regimi che si sono susseguiti nella tirannia sul pianeta, ma che fanno capo da secoli a un unico ordine: la massoneria.
Dalla difesa dell’orlo interno da parte di un manipolo di millenari guerrieri, all’effetto pac-man che spiegherebbe l’illusione di sorvolare un globo quando, dopo aver viaggiato in aero per ore la superficie piatta del pianeta, ci ritroviamo nello stesso punto. Soluzioni ben più semplici di una sfera, la cui idea servirebbe solo a renderci schiavi, a rimbambirci. D’altra parte, già Conan Doyle faceva affermare al suo Sherlock quanto spesso i misteri più intricati avessero soluzioni semplici. L’autore inglese conosceva già la verità e cercava di diffonderla attraverso i suoi racconti per non farsi scoprire dagli agenti massoni, rischiando di finire all’indice o, peggio ancora, in Australia. Ovvero nel nulla.

Tuttavia, una cosa non tornava. Se la Terra è piatta, come fanno a esistere il giorno e la notte? Sia nel caso che giri, sia nel caso che sia il sole a girare attorno a essa, come può esserci una transizione lunga di diverse ore tra il giorno e la notte?

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I dieci versi dalle canzoni di Battiato da appuntarsi e non dimenticare

Il cantautore, morto ieri nella sua residenza di Milo, era nato a Jonia il 23 marzo del 1945. Ha spaziato tra una grande quantità di generi,...