mercoledì 6 dicembre 2017

Sankara: l’ultimo discorso (da scolpire nella pietra) che gli costò la vita

29 anni fa un piccolo uomo dalla pelle nera sfidò i potenti del mondo.
Disse che la politica aveva senso solo se lavorava per la felicità dei popoli. Affermò, con il proprio esempio personale, che la politica era servizio, non potere o arricchimento personale. Sostenne le ragioni degli ultimi, dei diversi e delle donne. Denunciò lo strapotere criminale della grande finanza. Irrise le regole di un mondo fondato su di una competività che punisce sempre gli umili e chi lavora. E che arricchisce sempre i burattinai di questa stupida arena. Urlò che il mondo era per le donne e per gli uomini, tutte le donne e tutti gli uomini e che non era giusto che tanti, troppi, potessero solo guardare la vita di pochi e tentar di sopravvivere.

Nel luglio del 1987, in occasione della riunione dell’OUA (Organizzazione per l’Unità Africana) ad Addis Abeba, Thomas Sankara fece sentire la sua voce contro il debito africano (vedi video seguente).

Le sue idee al non determinato pagamento del presunto “debito pubblico” causarono disagio presso alcuni partecipanti all’assemblea che lo ritenevano un giovane in grado di sconvolgere il gioco di potere vigente in Africa.

Parole profetiche le sue quando disse “Se il Burkina Faso da solo, rifiuta di pagare il debito, non sarò qui alla prossima conferenza. Invece col sostegno di tutti, potremo evitare di pagare, destinando le nostre magre risorse al nostro sviluppo.”
Gli altri presidenti presenti in sala applaudirono con entusiasmo l’intervento di Sankara ma nessuno di loro poi aderì alle sue proposte, lasciandolo di fatto solo ed isolato.
Tre mesi dopo questo discorso Sankara venne assassinato (15 ottobre 1987) in un colpo di Stato organizzato dal’ex-compagno d’armi e collaboratore Blaise Compaoré con l’appoggio di Francia, Stati Uniti d’America e militari liberiani.

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domenica 3 dicembre 2017

No, non posso passarti lo zucchero: mi hai appena spezzato il cuore

Illustrazione di Simone Rotella
Nathan Englander *
Una mia amica, più o meno della mia età, tornando nella sua città natale si è imbattuta al supermercato nel padre di uno dei suoi amici di quando erano ragazzi. Lo ha avvicinato e si è presentata: «Signor Boyer, sono io, Amanda, della classe di Darren, andavo a scuola con suo figlio». Il signor Boyer l’ha guardata e ha detto: «Sono io. Sono Darren. Sono io, quello della scuola».  

Questa storia mi piace perché mi fa orrore. Ho una paura al limite della fobia dei segni visibili dell’invecchiamento, un terrore innaturale che non riesco a dominare. Mia madre ha cresciuto me e mia sorella nell’insofferenza verso tutto quello che è apparenza, ingigantendo ai nostri occhi ogni poro e foruncolo, educandoci a un’autocritica che trasformò quasi in arte. Se ci fosse stato un simbolo che rappresenta la paura dei difetti fisici, sarebbe stato raffigurato sullo stemma della nostra famiglia, tenuto negli artigli da un’aquila. 

Eravamo umili, io, mia sorella e mia madre. Non abbiamo mai osato pensare che chiunque, ovunque, potesse per un solo secondo pensare bene di noi. Non tolleravamo alcun favore dagli altri. Ci riesce tuttora molto male discostarci dagli insegnamenti di nostra madre. Ma potrebbe forse trattarsi di un narcisismo volto al negativo? La nostra famiglia raggiunse l’eccellenza in materia: mia madre ci insegnò a credere che gli altri avrebbero potuto perdere il sonno, sfiorare addirittura la follia, se avessero notato che i jeans ci stavano stretti perché eravamo ingrassati. 

Mia madre ci ha insegnato una serie di mantra utili a sopportare le nostre sofferenze: «È sempre meglio apparire bene piuttosto che stare bene», oppure «Solo le persone con gambe molto belle dovrebbero indossare un paio di shorts» (credo che mia madre non se li sia più messi dal 1979). Da ragazzo provai a rivedere alcune delle sue massime, per renderle più adatte all’auto-tortura di un maschio.
Per esempio, per anni ho limato una poesia: «Come il primo fiore di primavera, / i peli spuntano dall’orecchio di un uomo, / è il modo in cui la natura gli dice / che è giunto il tempo di morire». 

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venerdì 1 dicembre 2017

All’Orange Festival arriva “Salario”, ovvero quando gli extracomunitari eravamo noi


Prosegue la stagione del Teatro della Juta, sede dell’Orange Festival che ospita venerdì 1 dicembre lo spettacolo scritto e diretto da Gualtiero Burzi e Mauro Pescio, “Salario”. Tratto da un monologo radiofonico realizzato per la Rai, “Salario” è ambientato in Francia, precisamente ad Aigues-Mortes, splendida costiera, nota per le sue saline che ospitavano tanti emigranti italiani che qui si recavano per la raccolta del sale.

La storia si svolge nel 1893 quando un conflitto tra italiani e francesi si trasformò, nelle saline di Peccais, in un vero e proprio eccidio: undici morti e più di centocinquanta feriti tra gli italiani. La tensione che ne seguì fece sfiorare una guerra tra le due nazioni. La messa in scena punta a mettere a confronto la situazione di quegli italiani con quella di alcuni extracomunitari in Italia oggi.

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I dieci versi dalle canzoni di Battiato da appuntarsi e non dimenticare

Il cantautore, morto ieri nella sua residenza di Milo, era nato a Jonia il 23 marzo del 1945. Ha spaziato tra una grande quantità di generi,...