Avevo atteso l’estate come si aspetta Natale da bambini.
L’estate e la sua luce, la meraviglia del sole, la voglia di andare via, di cambiare aria, di viaggiare.
E l’estate era arrivata, torrida e puntuale.
Da
ogni finestra della città si affacciavano volti accaldati in attesa di
una partenza per le spiagge e, la sera, le vie del centro erano un
brulicare di corpi ringiovaniti dalla promessa di una vacanza. Di lì a
poco le vie, le case, gli uffici, avrebbero cominciato a svuotarsi e le
autostrade sarebbero diventate tappeti di automobili fin troppo veloci.
Stanca
e annoiata com’ero dal freddo e dagli oneri invernali, non mi ero
nemmeno resa conto che la vacanza che avevo tanto atteso vacillava sotto
il peso di una serie di problemi organizzativi che alla fine
risultarono troppi, e così, senza che avessi nemmeno il tempo di
reagire, mi ritrovai senza un programma e senza prospettive.
Fanculo, mai che ci si possa fidare di qualcuno.
I
compagni di viaggio vanno scelti con cura, ed ero cascata una volta di
troppo in una rete di entusiasmi incapaci di dare una ragionevole
conferma di loro stessi.
Ci ero cascata, ed ero sola. Un’altra volta.
Intanto
il calore dei muri delle case saliva, non c’era ora del giorno in cui
non si avesse il sole addosso, appiccicato alla pelle, da un sudore
invadente.
C’era da scegliere. Si poteva restare a letto investiti
dal getto d’aria del ventilatore, annegare in una vasca da bagno, o
fingere di gradire l’aria condizionata di un centro commerciale, dove,
d’estate, i gesti automatici e inespressivi delle cassiere risultano
ancora più terrificanti che d’inverno.
D’inverno produrre,
commerciare, vendere, comprare, lavorare ha un senso; all’unisono e, con
un’esemplare senso di abnegazione al dovere, lo facciamo tutti, in
maniera ordinata e costante, senza protestare e senza eccessivi moti di
ribellione.
Ma, d’estate, il suono di un lettore di un codice a barre
che fa comparire su un display il prezzo di un surgelato echeggia come
un grido sinistro e isolato, nell’aria appesantita dal caldo. D’estate
la vita va in stand-by, è tutto sospeso fino a nuovo ordine, tutto
interrotto. E nessuno dovrebbe lavorare, né pensare, né produrre, né
avere memoria o ricordi.
I ricordi, nella luce accecante di un
pomeriggio estivo e urbano, possono assumere forme mostruose, come ombre
cinesi prodotte sul muro di una stanza squallida di un motel
sull’autostrada, in cui ci si è fermati con l’auto in panne. I ricordi,
nell’afa cittadina, non fanno compagnia. Penetrano sotto pelle e corrono
lungo le vene, su, su, fino al cuore che li pompa agli occhi, e là si
fermano sulla retina per appannarti la vista già così poco chiara.
In
un pomeriggio così, affollato di immagini fuori corso di validità e
ormai spettrali, mi ero ritrovata, senza nemmeno sapere come, a
percorrere in auto una strada che portava fuori città. Più mi
allontanavo dalle case, dai palazzi, dalle storie che raccontano e dalle
promesse che non mantengono, più mi sentivo inebriata e terrorizzata al
tempo stesso.
Lanciata verso una meta sconosciuta, mi allontanavo
dalle poche cose che conosco davvero, volti, luoghi, strade; premevo
sull’acceleratore, mentre mi lasciavo indietro, una a una, le
familiarità, ognuna abbinata a un ricordo o a una suggestione, e tutte
conficcate nella gola, come spianate ed erette a ostruire il passaggio
del fiato.
Non sapevo se avere più paura di quello che conoscevo e
che stavo almeno temporaneamente lasciando, o di ciò che avrei trovato.
Guidavo senza attenzione, guidavo e basta, ormai persa in posti che
iniziavano a essere desolati e deserti.
Il gioco era allestire una
sfida tra il deserto che avevo dentro e quello che c’era fuori, non
senza, al tempo stesso, cercare di convincermi che avrebbe avuto più
senso voltare l’auto e tornare sui miei passi.
Ma non ci riuscivo, era come combattere contro una forza misteriosa e nuova.
E nemmeno la musica che cercavo di far uscire dall’autoradio mi era tollerabile.
Ogni nota, ogni canzone mi riportava a cose già viste, che non volevo più vedere né sentire.
Meglio
il silenzio, meglio pensare, anzi, no, meglio non pensare, meglio
sentire, meglio lasciarsi divorare dalle immagini aggressive e impietose
che continuavano ad affiorare sempre più vorticose e taglienti.
Sentire
sulla pelle il dolore non è come pensarlo, è un’esperienza ben più
estrema, e guidare con gli occhi appannati dalle lacrime è un po’ come
giocare a mosca cieca, procedi a tentoni fino a quando, un po’ per caso,
un po’ per istinto, trovi al tatto qualcosa che pensi sia quello che
cercavi.
Non so quanto tempo fosse passato, non lo so e non lo
volevo sapere, so che a un certo punto ho fermato la corsa, quasi
bruscamente spinta dal bisogno di un caffè, e dall’incontro magico con
una scritta scolorita, dietro alla quale si immaginava l’esistenza di un
bar, uno di quei posti che esistono solo fuori città o nelle periferie,
pieni di fumo e di uomini con la barba da fare e l’alito pesante. Una
volta luogo di ritrovo degli anziani, oggi coacervo di etilisti, di
tamarri appiccicati a un videogame e di puttane albanesi.
In realtà il bar era quasi deserto. Due vecchi sorseggiavano una pozione simile a vino e un giovane fumava a un tavolo.
Ho
bevuto il mio caffè, prendendomi il tempo di assaporare quanto fosse
cattivo, e pensai che la città ha i suoi vantaggi, almeno puoi scegliere
dove assumere caffeina farti avvelenare, e senza sprofondare in un
incubo suburbano.
Eppure tutto aveva un suo fascino e quantomeno, era
più vero dell’atmosfera di plastica che il giorno prima avevo respirato
nel centro commerciale dove avevo cercato refrigerio.
Mi sono accesa
la prima sigaretta, quella d’ordinanza, poiché a ogni caffè ne
corrispondono almeno due, fumate avidamente con un breve intervallo, e
ho pagato, ostentando al barista un formalismo assolutamente fuori luogo
e troppo cittadino. Dove cazzo credevo di essere?!? Da Baratti?
Bah….
Sono
risalita in macchina con una risolutezza assolutamente inadeguata
all’assenza totale di una meta, ho riacceso il motore e improvvisamente
ho messo a fuoco lo squallore del posto in cui mi trovavo.
Alle mie
spalle una strada diritta, quella da cui ero arrivata, era costeggiata
da capannoni industriali e da qualche casa isolata; vicino al bar
campeggiava un mobilificio chiuso e, oltre, si intravedeva un passaggio a
livello con le sbarre sollevate.
La strada proseguiva e io con lei, ormai estranea a tutto.
Mi
chiedevo se essere rapita dai beduini o dai predoni del deserto potesse
assomigliare a quello che stavo vivendo, come se in quel posto mi ci
avesse trascinato qualcuno a forza.
Eppure era così. Ero arrivata lì
contro la mia volontà, mi ero persa nel deserto squallido di una
provincia rovente del nord, catturata dalla necessità impellente di
sfuggire all’agonia solitaria di una città bollente e vuota.
Ero
stata teletrasportata in questa landa desolata da un raggio virtuale,
che era l’emanazione diretta del bisogno che si ha di perdersi, quando
trovarsi è impossibile.
E mentre sprofondavo nel desiderio onirico di
veder spuntare, da dietro le dune, lanciati sui loro cavalli al
galoppo, gli Uomini Blu dai quali avrei voluto essere portata via, per
essere segregata tra i loro palmizi ricchi e abbondanti , mi fermai.
Fermai
l’auto, guardai attentamente il paesaggio e mi resi conto che ero già
stata in quei luoghi, che conoscevo quella strada e che non c’era nulla
di nuovo in quello che stavo facendo, e niente, tra ciò che avevo
intorno e dentro di me, che mi fosse estraneo.
Tutto era solo più
acceso e amplificato dalla desolazione e dalla calura torrida
dell’estate, ma niente era nuovo e niente era così importante da
meritare che io ci volessi sprofondare dentro.
Voltai l’auto verso la
città, mentre realizzavo con la delusione che inevitabilmente si prova
ogni qual volta si sperimentano certi involuti percorsi dell’animo
umano, che non avevo compiuto nessuna grande impresa e che ciò che
sentivo era solo il vuoto dell’immobilismo…
Ero partita alla ricerca
di un’oasi in cui rigenerarmi, pensando di meritare chissà quale premio
per aver azzardato un viaggio in auto in provincia, o ancor di più, per
essermi lasciata toccare dal dolore, ma in realtà, non mi ero mai mossa
dal punto in cui mi hai lasciato tu.
Avevo presidiato il mio
avamposto, con la presunzione di aver compiuto un’impresa cui sia dovuto
un merito; avevo creduto di aver viaggiato tra le dune, con la sabbia
che ti penetra ovunque e l’arsura nella gola, cercando un’oasi di acque
chiare e di palme rigogliose in cui trovare riposo.
Ma l’oasi è un
premio che spetta ai viaggiatori, alle carovane di viandanti e ai
commercianti di spezie che faticano a dorso dei loro cammelli per
portare il carico a Occidente.
Io, dovevo ancora partire.
di Simonetta Bisicchia
Cascina Macondo - Scritturalia, domenica 6 febbraio 2005