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mercoledì 18 maggio 2016
Nome di battaglia: Avesta Harun
di Elisabetta Rosaspina
Quando
Avesta si chiamava ancora Filiz, la sua battaglia non interessava
granché l’Occidente. Era una questione fra il suo popolo, i curdi del sud est anatolico,
in lotta per l’indipendenza, e la Turchia, la seconda potenza militare
(dopo gli Usa) della Nato. Tra il gruppo di fuoco del Pkk, il Partito
dei Lavoratori del Kurdistan, con la sua sanguinosa catena di attentati
(generalmente, va precisato, contro obiettivi militari e non civili) e
un Paese alleato che offre basi strategiche per le operazioni in Medio
Oriente, l’Europa e gli Stati Uniti non avevano avuto dubbi nel
scegliere con chi stare: dalla parte di Ankara contro quelli che molti
Stati hanno deciso o accettato di inserire nella lista delle
organizzazioni terroristiche.
Lì sarebbero rimasti: una sigla fra tante e una formazione di idealisti
male armati e più o meno irriducibili, infrattati nelle loro montagne,
evocati a ogni esplosione di un ordigno, contro un autobus di soldati,
una caserma o una stazione della polizia turca. O a ogni ipotesi di un
cessate il fuoco e di una concessione politica ai rappresentanti curdi.
Finché sul Medio Oriente e sull’Europa non si è stagliata l’ombra di un nemico molto più feroce,
molto più efficace nel colpire e nel diffondere il terrore. E molto più
abile nel reclutare nuovi seguaci, nel dotarsi di armi e mezzi
sofisticati, nel conquistare e controllare territori sempre più ampi,
nell’ autofinanziarsi con il traffico di petrolio e reperti
archeologici, o con i rapimenti, nel progredire insomma con
l’anacronistico delirio di onnipotenza pseudoreligiosa del suo Califfo.
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