venerdì 30 gennaio 2009

Una domenica




















Svegliarsi in una camera d’albergo, una domenica, a Torino, è anche scoprire assenze, oltre che rumori attutiti, è l’eco immaginata di corso Vittorio, con l’impressione dell’attrito tagliente delle ruote di un tram.
La domenica, a svegliarsi presto, nella città, quando il sole ancora non scalda, o addirittura non c’è, non si trovano i lavoratori che già corrono, ma qualche rara presenza, di quelle che si aggirano furtive sotto i portici e vicino alla chiesa di via ***.
Torino anche di domenica è fatta di caffè e di vetrine che riflettono un selciato lucido di fresca lavatura o di pioggia indifferente come il Po scuro, viscoso, sporco dei difetti e della noncuranza di molti. Nei caffè, mangiando brioches, si vedono passanti che sembrano strani e rapiti da destinazioni assurde, rispetto a quelli dei giorni lavorativi, e la città, anche quando piove, anche perché piove, sembra un’altra, appare pulita e rinata, ma se uno ha voglia di andare, non gliela fa passare, semmai fa sentire che già tra poche ore sarà forte il desiderio di tornare.
Così nasce la volontà di non attendere lo scandire delle ore dato dai movimenti della folla domenicale, a volte così vuota, non si vogliono aspettare la messa, le paste, la partita o il cinema o il teatro, si vuole evitare di avere davanti agli occhi il tentativo di prolungare la festa, i rientri, i passi pesanti di adolescenti anonimi e omologati, i passi strascicati dei barboni, la solitudine provocata da questi nei confronti di quelli, inconsapevoli.
I barboni, sì perché al mattino si trovano a Torino, come nell’altra città, Genova, cartoni in terra, accanto agli sfiati, nei sottopassi, ancora caldi (o freddi?) dei corpi senza nome che vi hanno atteso la luce nel tentativo di dimenticare la stanchezza.
Al mattino non ci sono ancora gli ubriachi per strada, ma qualche folle sì, a cui non bastano più le colline e che si aggira senza requie, metafora di molti, ma a volte i lampioni recano ancora la luce della notte a giorno fatto, inutile tentativo di sconfiggere la nebbia. Oppure si incontra quella ragazza non ancora sfiorita ma con lo sguardo già cinico, dal destino forse già deciso, che si aggira a chiedere, ma da allora son trascorsi quindici anni.
Anche la domenica mattina la città si ama, la città si odia, la città sembra il paese, ma non se ne riconoscono gli abitanti ed è per questo che è bello starci, ed è per questo che ogni tanto è bello andarsene. La città è la gente a cui si possono attribuire tante caratteristiche inventate, è tanti paesi assieme, tante storie sotto i portici, tra le aiuole, nelle viuzze strette che sanno di rancido e di cantina, dove occhi spiano in attesa, in balia dell’acqua del fiume, tra le risa che si inseguono su per la collina in quel tepore ben noto che ha anche lui il suo profumo.
Così il pensiero porta a quell’altra città, verso cui dirigersi attraversando strade e binari, evitando ondulate e insensate scorciatoie, ma percorrendo tutta la strada, le curve, gli alberi che delimitano e guidano i viaggiatori, le piazzole, luoghi di sosta dove c’è chi guarda in faccia la solitudine e i suoi occhi grami. Tutto ciò senza sottrarsi a certe brutture da periferie urbane con l’aiuto di ricordi di viaggi, di benefica routine, di notti, di neve e di sole, di delusione e felicità, pensieri liberi di un viaggiatore senza vincoli.
In tal modo quell’altra faccia della medesima realtà, che è Genova, diventa quasi una meta da raggiungere solo dopo fatiche e gallerie scavate non come scappatoie ai sotterfugi ma quasi prove di coraggio, con il mare che si sente già mentre si è ancora in terra piemontese e che ben prima di essere conquistato si nega apparendo e scomparendo alle svolte della strada.
A un certo punto del tragitto il mare sembra essere annunciato illusoriamente dal nome di un luogo, una casa, che altro non è che il richiamo alla pubblicità di un carburante lì in vendita, un luogo che risveglia antiche immagini di un’infanzia che sembra appena finita, ma non è così.
Là un giorno si è celebrata una scelta, si è festeggiata una vita, anche se non senza visi annoiati, fumo, frasi di circostanza, mentre quattro manovali che non c’entravano nulla sedevano a un tavolo discosto, come quegli altri che si sentono coinvolti dall’avvenimento ma non osano (ma la vita e il suo bello non è anche quello?). In quel luogo sembra di non essersi allontanati dalle porte della città, nonostante sia ancora negli occhi di qualcuno il campo maturo che una volta circondava la stazione di servizio con le réclames rivolte allo stradone trafficato, da cui doveva tenersi alla larga il piccolo cow-boy a cui sorrideva un vecchio benzinaio rattoppato, puzzolente di olio e di fumo pesante. Sotto la vicina topia c’è magari chi si aspetta che sbuchi uno con la chitarra a tracolla che si metta a suonare appoggiandosi a una seggiola impagliata, i pensieri persi e il vino sul tavolino accanto, mentre si potrebbe scorgere se stessi, dando un viso conosciuto agli sconosciuti che neanche guardano chi passa o lo osservano con fuggevole curiosità.
Poi d’un tratto vedere e ricordare colline spelate, rocce affioranti, tracce d’incendi, cime bruciate, case diroccate, come quella famosa, col punto interrogativo che chissà a cosa si riferisce, luoghi scabri dove dev’essere costato fatica e vita grama vivere, dove le montagne non alte incombono su chi sta per essere ingoiato da una galleria e si sta sui viadotti come sospesi in aria, in attesa di essere fagocitati da fameliche gallerie, e la luce è una pausa tra il buio, in attesa dello scoppio d’azzurro tra cielo e mare che non è mai troppo, non se ne vede mai abbastanza.
È però vero che il mare, no, non lui ma ciò che separa il mare dalle colline, può tradire, può essere squallido, può recare tracce false di chi non capisce. Il legame tra mare e colline non può essere interrotto, le colline sono il mare, lo vedono, lo sentono, lo comunicano con quel colore maturo e acre che colpisce d’estate, tra luglio e agosto, che toglie il fiato e spinge a pensare alle cantine umide e fresche, come viscere sublimi.
Certo sarebbe bello che le colline, quelle colline, dessero sul mare così, senza nulla in mezzo, ma è meglio che ci sia fatica e piacere ad andare da queste a quello e viceversa. D’altra parte, la fatica del lavoro accomuna mare e colline, perché i lavori del mare non sono meno pesanti della vigna, e le ragazze che sono tra i filari sono annerite di sole come quelle della riviera.
E non è che la città di mare, dal cui porto si continua ad andare per il mondo inseguendo la vita, sia solo la pietra intorno a un rosone e i sorrisi delle ragazze davanti alle strisce bianche e nere di una chiesa. C’è anche quel mendicante cieco, immobile, statuario sotto il ponte da chissà quant’anni, che ricorda che ovunque è un po’ Torino, ovunque è un po’ Genova, anche nella quiete sospesa di un carruggio, nel colore in riva al mare, sull’ardesia dei tetti che sembrano strade, o gradini di una scala.

Guido R.


Aprile 1999

Pubblicato su Le colline di Pavese, anno 22, n. 82, maggio 1999.

mercoledì 21 gennaio 2009

Chi semina raccoglie

Un giorno un'insegnante chiese ai suoi studenti di fare una lista dei nomi degli altri studenti nella stanza su dei fogli di carta, lasciando un po' di spazio sotto ogni nome.Poi disse loro di pensare la cosa più bella che potevano dire su ciascuno dei loro compagni di classe e scriverla.Ci volle tutto il resto dell'ora per finire il lavoro, ma all'uscita ciascuno degli studenti consegnò il suo foglio.Quel sabato l'insegnante scrisse il nome di ognuno su un foglio separato, e vi aggiunse la lista di tutto ciò che gli altri avevano detto su di lui/lei.

Il lunedì successivo diede ad ogni studente la propria lista.
Poco dopo, l'intera classe stava sorridendo.

'Davvero?' sentì sussurrare.'Non sapevo di contare così tanto per qualcuno!' e 'Non pensavo di piacere tanto agl’altri' erano le frasi più pronunciate.Nessuno parlò più di quei fogli in classe, e la prof non seppe se i ragazzi l'avessero discussa dopo le lezioni o con i genitori, ma non aveva importanza: l'esercizio era servito al suo scopo.Gli studenti erano felici di se stessi e divennero sempre più uniti.

Molti anni più tardi, uno degli studenti venne ucciso in Vietnam e la sua insegnante partecipò al funerale.

Non aveva mai visto un soldato nella bara prima di quel momento: sembrava così bello e così maturo.La chiesa era riempita dai suoi amici.Uno ad uno quelli che lo amavano si avvicinarono alla bara, e l'insegnante fu l'ultima a salutare la salma.Mentre stava lì, uno dei soldati presenti le domandò 'Lei era l'insegnante di matematica di Mark?'

Lei annuì, dopodiché lui le disse 'Mark parlava di lei spessissimo'.

Dopo il funerale, molti degli ex compagni di classe di Mark andarono insieme al rinfresco.
I genitori di Mark stavano lì, ovviamente in attesa di parlare con la sua insegnante.'Vogliamo mostrarle una cosa', disse il padre, estraendo un portafoglio dalla sua tasca.
'Lo hanno trovato nella sua giacca quando venne ucciso. Pensiamo che possa riconoscerlo'Aprendo il portafoglio, estrasse con attenzione due pezzi di carta che erano stati ovviamente piegati, aperti e ripiegati molte volte.L'insegnante seppe ancora prima di guardare che quei fogli erano quelli in cui lei aveva scritto tutti i complimenti che i compagni di classe di Mark avevano scritto su di lui.'Grazie mille per averlo fatto', disse la madre di Mark.'Come può vedere, Mark lo conservò come un tesoro'

Tutti gli ex compagni di classe di Mark iniziarono ad avvicinarsi. Charlie sorrise timidamente e disse 'Io ho ancora la mia lista. E' nel primo cassetto della mia scrivania a casa'.La moglie di Chuck disse che il marito le aveva chiesto di metterla nell'album di nozze, e Marilyn aggiunse che la sua era conservata nel suo diario.Poi Vicki, un'altra compagna, aprì la sua agenda e tirò fuori la sua lista un po' consumata, mostrandola al gruppo.'La porto sempre con me, penso che tutti l'abbiamo conservata'

In quel momento l'insegnante si sedette e pianse.

Pianse per Mark e per tutti i suoi amici che non l'avrebbero più rivisto.
Ci sono così tante persone al mondo che spesso dimentichiamo che la vita finirà un giorno o l'altro. E non sappiamo quando accadrà.Perciò dite alle persone che le amate e che vi importa di loro, che sono speciali e importanti. Diteglielo prima che sia troppo tardi.Ricorda, 'chi semina raccoglie'.
Quello che metti nella vita degli altri tornerà a riempire la tua...

martedì 6 gennaio 2009

I dieci versi dalle canzoni di Battiato da appuntarsi e non dimenticare

Il cantautore, morto ieri nella sua residenza di Milo, era nato a Jonia il 23 marzo del 1945. Ha spaziato tra una grande quantità di generi,...